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Challengers, tra eros e potere: la recensione

Challengers, tra eros e potere: la recensione

Andrè Agassi affermò che il tennis è boxe senza contatto. Gli atleti non si toccano, eppure sferrano colpi micidiali a mente, anima, cuore. Il rumore della racchetta che colpisce la pallina fa male a chi subisce, ma anche a chi colpisce. C’è chi prega che la pallina s’insacchi magistralmente all’incrocio delle righe, chi invece si augura finisca fuori o sul nastro. Ogni punto perso, non torna indietro. Non c’è nessun altro, se non i giocatori. Non si può chiedere aiuto a nessuno. Nè al pubblico, nè all’arbitro, a volte nemmeno a se stessi. Al massimo, al destino. Che però, spesso è beffardo sui campi da tennis, ma anche fuori dal rettangolo.

Challengers: la recensione

Già, perchè è fuori dal campo che inizia la partita. Ci sono atleti che, appagati dal talento che la natura gli ha conferito, si appagano, gettandolo via. E poi ce ne sono altri che lavorano sodo per sopperire a quella mancanza di talento. Spesso, i secondi hanno più successo dei primi. Il successo, appunto: è su questo tema che s’incentra Challengers, il film di Luca Guadagnino, che si mette alla prova con un drama sportivo a suon di flashback.

Il tennis, ed il successo che ne deriva da esso, fa da collante per un triangolo amoroso in cui, però, l’amore non scende mai in campo. Non c’è, non è presente, non si è qualificato a nessun torneo. Conta solo il successo. Quest’ultimo “scende in campo” a suo modo, impersonificato dalla strepitosa Tashi Duncan (Zendaya): rimane seduta in tribuna nella finale challenger di New Rochelle, in posizione a privilegiata, a scuotere la testa da una parte all’altra della rete. Vuole essere la prima a salire sul carro del vincitore della finale del torneo challenger di New Rochelle, chiunque esso sia. 

E’ lei a mobilitare tutto, pur non giocando. Non più, almeno. Era una promessa del tennis, di quelle che il destino aveva scelto per regnare. Ma il fato, come dà tutto, toglie tutto. Dipende da come gli gira, dato che Tashi si rompe il crociato in una partita all’Università di Stanford. In quel ginocchio spezzato, c’è una carriera piena di talento che se ne va. Ma lei non vuole sentir parlare di abbandonare il tennis, che è l’unica cosa che ama davvero. Anzi, ne è ossessionata.

Motivo per cui, da adolescente, s’infila in un triangolo amoroso con le giovani promette tennistiche Art Donaldson (Mike Faist) e Patrick Zweig (Josh O’Connor). Oltre ad essere tennisti, sono amici per la pelle, fratelli non di sangue ma per scelta, come si suol dire. Insieme vincono il torneo juniores di doppio Us Open, ad esempio. Ma c’è una differenza: il primo lavora sodo per diventare qualcuno, il secondo si appaga pensando che la natura abbia già fatto il suo dovere, conferendogli il talento. Ed è qui che inizia la partita. Quella vera, quella decisiva. Ed anzi, in campo entrano nuove componenti, ovvero l’eros e la sensualità.

E’ con queste armi, più potenti di qualsiasi racchetta d’ultima generazione, che Tashi li seduce, li mette alla prova. Qualche sorriso rivolto ad entrambi per confonderli, per tenersi aperte entrambe le porte.”Chi di voi vince la finale di domani, avrà il mio numero”, e dunque un appuntamento, dice Tashi ad Art e Patrick. Già, perchè lei con un perdente non vuole uscire. E’ troppo ambiziosa per accettare questo “disonore”, che per lei è più umiliante di una sconfitta sul campo. E se inizialmente “sceglie” Patrick, ben presto si ricrede. Capisce immediatamente che non ha intenzioni sportivamente serie, che preferisce lasciarsi andare piuttosto che diventare qualcuno. Inaccettabile, per lei. Che dunque volge lo sguardo dall’altra parte della rete, dove c’è Art. Di cui non solo diventa l’allenatrice dopo il suo grave infortunio, ma anche moglie.

Finchè dura il successo, dura anche l’amore, o meglio il matrimonio (parlare di amore è decisamente troppo). L’età passa per tutti, anche per Art, che pur essendo diventato uno dei più forti tennisti al mondo, non riesce più a vincere. Motivo per cui la finale challenger di New Rochelle, torneo poco ambito e dove militano gli sconosciuti, diventa più importante di Wimbledon. Non per Art, sia chiaro: lui, nella sua mente, ha già appesso la racchetta al chiodo. Ma per Tashi, che dà l’ultima occasione al marito: “Se non vinci, ti lascio”. Che ci sta a fare, con uno che ormai è diventato un perdente? Anche perchè dall’altra parte del campo c’è Patrick, la cui carriera è scivolata via.

E’, dunque, su trama che si svolge il drama di Guadagnino. Guadagnino riesce a creare una tensione costante, rendendo ogni scena possibili momenti di svolta nella trama. Le inquadrature ravvicinate dei volti dei giocatori, il suono del rumore della racchetta che colpisce la pallina, lo sguardo preoccupato di Tisha in tribuna. Tutto contribuisce a creare un’atmosfera avvolgente che tiene lo spettatore con il fiato sospeso. E’ tutto coerente dall’inizio alla fine, un arco narrativo chiaro, ben delineato. Una rappresentazione cinematografica di ciò che diceva Agassi: il tennis è come la boxe, violento. Soprattutto fuori dal campo.

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